Corso di storia dell'economia: Galbraith 1908

John Kenneth Galbraith 1908

John Kenneth Galbraith — Il grande narratore dell’economia moderna

Immagina un economista che non si nasconde dietro formule inaccessibili, ma racconta l’economia come se fosse una grande storia collettiva: chi compera, chi produce, chi detiene il potere e come la società decide cosa è importante. Questo è John Kenneth Galbraith (Iona Station, Ontario, 1908 – Cambridge, Massachusetts, 2006): professore, consigliere politico, polemista e — soprattutto — uno dei più acuti interpreti del capitalismo del XX secolo.

Un percorso fra università e politica

Galbraith fu innanzitutto un accademico di rango: insegnò in varie università americane e per lunghi anni fu a Harvard (dal 1949 al 1975), dove formò generazioni di studenti. Ma non rimase mai rinchiuso nella torre d’avorio. Durante la Seconda guerra mondiale guidò uffici cruciali come quelli per il controllo dei prezzi (l’Office of Price Administration) e partecipò a politiche economiche di guerra e di ricostruzione. Negli anni del dopoguerra fu chiamato spesso a dare consigli al mondo politico — fu scelto anche come ambasciatore degli Stati Uniti in India (sotto la presidenza Kennedy) — e mosse con naturalezza tra il mondo della ricerca e quello delle decisioni pubbliche.

La sua cifra: scrivere bene per pensare meglio

Galbraith era un maestro della prosa chiara: spiegava idee complesse con immagini efficaci e talvolta con umorismo. Non scriveva soltanto per specialisti: i suoi libri ebbero enorme diffusione perché riuscivano a rendere comprensibile e intrigante il funzionamento delle economie avanzate.

Le idee principali (raccontate come storie)

1. Il capitalismo pianificato (ma non come lo immagini)

Galbraith osservò che il capitalismo moderno non era più fatto soltanto di tanti piccoli produttori che si affrontano in un mercato “puro”. Nelle economie avanzate si erano formate grandi imprese con potere di mercato — cartelli, oligopoli, corporazioni — che pianificano: decidono investimenti, produzione, comunicazione e, spesso, anche i prezzi. Per Galbraith questo non era un’anomalia temporanea ma una caratteristica strutturale del capitalismo industriale moderno.

Esempio pratico: pensa a un grande produttore automobilistico: non mette sul mercato un prodotto e attende che il “mercato” scelga. Progetta modelli, coordina fornitori, decide campagne pubblicitarie mondiali e orienta i gusti dei consumatori. Quel comportamento è pianificazione, non semplice concorrenza.

2. Il ruolo della pubblicità e la “fabbrica dei bisogni”

Galbraith sottolineò che molte domande dei consumatori non sono “naturali”, ma costruite: la pubblicità e il marketing creano bisogni nuovi, spingono all’acquisto e amplificano la domanda. Il risultato è una società in cui la produzione e il consumo si alimentano a vicenda, spesso su beni voluttuari o superflui.

Immagine: la pubblicità non si limita a descrivere un prodotto: insegna alle persone a desiderarlo.

3. Contropotere (countervailing power)

Davanti al potere delle grandi imprese, Galbraith propose la logica del contropotere: le grandi imprese possono e devono essere bilanciate non solo dallo Stato, ma anche da altri attori organizzati — sindacati forti, grandi acquirenti, associazioni professionali — che limitino gli eccessi e tutelino gli interessi collettivi.

Perché conta: non basta sperare nella concorrenza. Dove il mercato è dominato da pochi, servono istituzioni che riequilibrino.

4. L’«Affluent Society» — la società benestante e i suoi paradossi

Nel suo libro più famoso, The Affluent Society, Galbraith descrisse due mondi paralleli: da una parte la crescente ricchezza privata (case, automobili, consumi); dall’altra il relativo sottosviluppo dei beni pubblici essenziali — scuole, trasporti, sanità pubblica, spazi urbani dignitosi. La sua denuncia era semplice e potente: quando la società si concentra troppo sul privato e trascura il pubblico, la prosperità perde significato.

Immagine: strade piene di negozi luccicanti e, subito accanto, scuole cadenti e ospedali insufficienti.

5. Il “nuovo stato industriale” e la tecnocrazia

Con The New Industrial State Galbraith descrisse la società in cui milioni di decisioni economiche non sono più prese dal “mercato” spontaneo, ma da ingegneri, tecnici e manager — la cosiddetta ‘technostructure’ — che dirigono la produzione su basi tecniche e di pianificazione. In questo scenario il potere economico si esercita più attraverso la competenza e la capacità organizzativa che attraverso la proprietà pura e semplice.

Temi civili e morali: pubblico, potere, responsabilità

Galbraith non era soltanto un osservatore tecnico. Molto del suo pensiero riguardava il bene pubblico: come orientare le risorse perché la ricchezza sociale migliori la vita collettiva. Propugnò l’intervento statale come correttivo necessario — non per eliminare il mercato, ma per bilanciarlo e per assicurare servizi e beni comuni.

Contro la “saggezza convenzionale”

Un’altra sua battaglia rimasta famosa fu la critica alla conventional wisdom — alle idee che si accettano come ovvie semplicemente perché “si è sempre detto così”. Raccomandava lo scetticismo: verificare i fatti, smontare le frasi fatte, leggere l’economia con occhi nuovi.

Gli ultimi decenni: povertà, bolle e scandali

Negli anni successivi Galbraith affrontò altri temi chiave:

  • Povertà di massa: in The Nature of Mass Poverty osservò che la povertà nei paesi poveri è strutturalmente diversa da quella nei paesi ricchi; le risposte politiche devono essere diverse e adeguate alle condizioni locali.
  • Euforia finanziaria e bolle speculative: in opere come A Short History of Financial Euphoria mostrò come la storia sia piena di bolle — dall’olandese tulipomania alle crisi moderne — e come l’irrazionalità collettiva possa trasformarsi in tragedia economica.
  • The Economics of Innocent Fraud (sua ultima opera, 2004) è una riflessione severa sui grandi scandali finanziari e sulle debolezze morali e istituzionali che li rendono possibili (l’esempio di Enron e altri scandali recenti diventa occasione per una critica della regolazione insufficiente e dell’etica pubblica).

Lo stile pubblico: intellettuale e polemista

Due parole sullo stile: Galbraith fu sempre un intellettuale pubblico. Amava il dibattito, non temeva lo scontro con i colleghi e sapeva usare l’ironia. I suoi libri raggiunsero il vasto pubblico perché univano rigore analitico e straordinaria capacità narrativa. Non era un purista teorico: per lui l’economia doveva servire a migliorare la vita delle persone, non restare idioma per iniziati.

Perché ancora oggi leggere Galbraith?

  • Perché mette in guardia dai consumi senza fine e dalla costruzione artificiale dei bisogni.
  • Perché ci ricorda che potere economico + debolezza pubblica = rischio sociale.
  • Perché la sua idea di contropotere è una lente utile per interpretare la concentrazione aziendale contemporanea (big tech, grandi catene, media conglomerates).
  • Perché le bolle finanziarie e gli scandali che descrisse restano temi attuali in un’economia globalizzata.

Letture consigliate (per cominciare)

  • The Affluent Society — per capire il suo giudizio sulla prosperità e i beni pubblici.
  • The New Industrial State — per la sua analisi del potere manageriale e della pianificazione aziendale.
  • The Great Crash (o The Great Crash 1929) — un classico sul crollo finanziario e le sue dinamiche.
  • A Short History of Financial Euphoria — breve e potente sul tema delle bolle.
  • The Economics of Innocent Fraud — il suo ultimo attacco contro le storture del mercato contemporaneo.

Un’ultima immagine

Galbraith è stato — prima che un economista accademico — un narratore della vita economica. Ci ha ricordato che dietro a cifre e tassi ci sono persone, istituzioni, scelte morali e storie. Leggerlo oggi significa non solo studiare teorie: significa tornare a domandarci che tipo di società vogliamo costruire, quali bisogni coltivare e quali interessi governare.



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